I GABBIANI DI TOSSA OVVERO… LA VOCE DEL POETA NELL’ERA DELLA MODERNITA’

In risposta ad una recensione un po’ affrettata…

(appendice alla raccolta di poesie “Siculadriatica”)

 

Buongiorno sig. Direttore.

La recensione, alla fine, malgrado le più avverse condizioni climatiche e gli “inspiegabili episodi”, è arrivata!

Con la presente, pertanto, vorrei anzitutto ringraziare la Fondazione per il lavoro svolto e per l’interpretazione dei miei scritti, che ha colto le dinamiche emotive attraverso le quali si manifesta la mia “necessità di scrivere” e ne ha descritto luoghi ed occasioni.

E’ perciò con leggero dispiacere che, giunto all’ultima pagina della recensione, ho dovuto constatare che il recensore, arrivato alla poesia n. 9 delle 25, si sia fermato ed abbia reputato sufficienti gli elementi che aveva raccolto nei testi fino ad allora sottoposti al suo vaglio; se avesse proseguito, forse, si sarebbe persuaso che questa raccolta pretendeva di avere un respiro più ampio rispetto al semplice refolo che vi è stato avvertito, il superficiale ed istintivo rapporto del poeta col paesaggio, peraltro brillantemente colto nella sua prospettiva stupefatta nonché nella sua retrospettiva emotiva, nel continuo confronto col proprio vissuto: si, tutto questo è vero ed è stato individuato con precisione ed acume, tuttavia, mi permetto di aggiungere, nella raccolta vi è qualcosa di più…

Anzitutto, sul piano formale, mi auguro che il recensore abbia scorto la semplicità solo apparente di certi versi; se, infatti, risponde a verità che il mio linguaggio è contraddistinto da una estrema semplicità linguistica, deve essere altrettanto chiaro che si tratta di una precisa opzione formale, la ferma volontà di consentire a tutti, colti e meno colti, una comprensione immediata del testo, senza artifizi retorici o sofisticherie tali da causare soluzioni di continuità nel flusso di comunicazione poetica che deve trasmettersi, senza ostacoli per mezzo, tra autore e lettore; d’altra parte, la semplicità semantica non deve trarre in inganno ed indurre a ritenere un’analoga semplicità di struttura, per cui mi chiedo: chi nella recensione ha analizzato, ad esempio, i versi “Tu però in Eni ci stai fino a sera/e da ingegnera risolvi problemi/Vinci concorsi di foto e disegni/vivi a Bologna e del sud hai rimorsi/Vivi da sola e ti ammanti di nebbia/ami la sabbia bruciata dal sole”, fatti oggetto di specifico commento, si è avveduto della circostanza che si tratta di tre distici ciascuno dei quali contiene due rime baciate incrociate (l’interna rimata con l’esterna) di cui una pura ed una (volutamente) imperfetta (tanto che si potrebbe affermare trattarsi di distici a croce di rima ed assonanza)? Si è, cioè, avveduto che non aveva di fronte un testo spontaneo bensì un testo costruito con cura, pazientemente levigato?

Spostandoci sul piano dei contenuti, inoltre, la raccolta è percorsa in lungo ed in largo da riflessioni filosofiche ed esistenziali (come ne “La casa degli uccelli”, in cui il messaggio implicito è che dalla morte sorge la vita, che la morte degli uni costituisce l’humus, l’occasione per la vita degli altri; tema sviluppato in altre poesie della raccolta, come in “B-I-469” o ne “La strada”, attraverso lo sguardo impietoso dei miei parenti che invecchiano); da riflessioni sulle correnti e sulle mode letterarie (in “Poesia della fine del mondo”, ad esempio, mi scaglio contro certa saccente “neoavanguardia” e, soprattutto, contro la subalternità di tanti critici letterari nei confronti della medesima); vi si trovano affrontati temi etici e nazionali (es. “A Riccione”), sociali (B-I-469), ambientali (es. “Un tuffo ad Albarella”), ed altri ancora; mi pare, allora, francamente un po’ riduttivo ritenere che queste poesie, sul piano contenutistico, si esauriscano in una visione stupefatta (quasi bucolica) del paesaggio oltre che nel dato memoriale; ed in verità, ad una lettura soltanto un poco più approfondita, ci si sarebbe accorti che, quasi sempre, esse rivelano un “sottotesto”, costituiscono una metafora di ciò che, con l’impiego del linguaggio lirico, il poeta vuole realmente dire; questo sottotesto, questo messaggio implicito (che, di per sé, già varrebbe a salvare l’autore dall’accusa di essere avulso dal contesto sociale e, quindi, di peccare di ingenuità) è davvero facilmente rintracciabile in alcuni componimenti, e sono certo che sarebbe stato facilmente rinvenuto ove si fosse fatta soltanto un poco più di attenzione a taluni passaggi dei medesimi…

Si consideri, ad esempio, la poesia “I gabbiani di Tossa”: soltanto in superficie può essere giudicata alla stregua di una poesia naturalistica e ingenua, giacché, in realtà, essa è esattamente l’opposto: è una poesia “sentimentale” (per dirla in concetti leopardiani), che descrive – e prova a farlo drammaticamente, dietro al velo della sua apparente pacatezza – il moderno rapporto tra l’uomo e la natura, che il poeta si incarica di descrivere e trasfigurare in linguaggio lirico; ed infatti, sinceramente, avendo davanti a sé il testo:

I gabbiani di Tossa

ci assordano al mattino

con quel loro vociare

alle prime luci dell’alba

ci fanno capolino

dalla persiana aperta sulla notte

si radunano a frotte

e in fretta si dileguano

con quel loro stridere rauco

tappezzano di bianco le ripide scogliere

tempestano di ali l’oceano glauco

per poi ritornare…

 

Due di loro, in particolare

stanno di vedetta su una torre merlata

in cima al bastione di una città fortificata

si sporgono proprio sul nostro terrazzino

i gabbiani di Tossa

di Turissa i guardiani

ci portano fin sul letto gli accordi del mattino

quando, ad un tratto, trasali

e ridendo, ad occhi socchiusi

ne imiti comica i versi:

“Uij, Uij, Uij,

Klà, Klà, Klà, Klà”

le intatte note di natura

mentre io, da lirico notaio

di postuma scrittura

mi alzo a registrare questi tuoi

– addì, sei di settembre del duemila decimo anno –

versi felici

tersi di luce

persi nel sonno

mi spiega perché mai un poeta che voglia riprodurre il verso dei gabbiani, anziché procedervi direttamente, abbia bisogno di trascrivere le imitazioni di questi versi fatte da un’altra persona? Perché abbia bisogno del filtro di un animo gentile, di uno spirito ancora infantile, di una voce innocente? Il messaggio che si nasconde dietro questa metafora (che viene riproposta anche in altri testi della raccolta, come nella poesia “Dal Diario di Arcadia”) è che l’uomo di oggi ha smarrito la sua capacità di percepire la natura, giacché ha perduto la sua ingenuità e, salvo casi sempre più rari di anime ancora “sensibili”, non intercetta più le voci del creato; il filo che legava l’uomo alla sua terra si è spezzato, il rapporto di armonia che anticamente affasciava l’uomo alla natura si è irrimediabilmente incrinato (o meglio: inquinato), per cui l’uomo moderno – almeno in termini di tendenza – è reso avulso dal mondo che lo circonda, è solo nella moltitudine e straniero a sé stesso, con la conseguenza di non sentire più la sua appartenenza, la sua ragion d’essere su questo pianeta; attenzione però: i gabbiani sono sempre lì, la natura continua a bussare alla nostra attenzione, ad affermare la sua presenza (“ci portano fin sul letto gli accordi del mattino”), sennonché l’uomo moderno non se ne accorge più; le “note di natura” sono pur sempre “intatte”, giacché la natura non può mutare, è imperitura e conserva integra l’essenza della vita, di modo che “i gabbiani di Tossa” diventano, nella metafora, “di Turissa i guardiani” (Turissa, per l’appunto, è l’antico nome di Tossa, come a voler significare che i gabbiani del nostro reale sono anche i guardiani di un’altra dimensione, quella mitica ed aurorale di natura, che tuttora ci viene offerta ma di cui non sappiamo più riconoscere i segni nel nostro quotidiano, bensì in una dimensione fantastica: “stanno di vedetta su una torre merlata”); mentre il poeta, nel riprodurre quelle “note” si rivela essere un notaio, tutt’al più un “estetico notaio”: espressione con cui intendo rappresentare colui che si trova davanti agli eventi ma non vi partecipa, la cui unica funzione essendo quella di attestarli, di registrarli ma non già – ripeto – di parteciparvi, di essere parte integrante di un fenomeno di fusione, di un’esperienza di appartenenza che, con la secolarizzazione del mondo ed il definitivo avvento della modernità, gli è irrevocabilmente precluso. La sua scrittura, allora, non può essere più naturale e spontanea bensì è estetica, posticcia, nostalgica, addirittura “postuma”: espressione con cui intendo marcare la distanza tra l’evento naturale ed il poeta moderno, una distanza a tal punto abissale da collocare la sua scrittura in un momento successivo rispetto all’evento vitale che vorrebbe cogliere; la sua, quindi, è una scrittura di morte, commemorativa di un evento già trascorso ed irripetibile ed è, inoltre, una scrittura essa stessa morta, giacché non può aver conservato lo scintillio vitalistico di un evento a cui non ha partecipato, e che può solo registrare a posteriori (ecco, ancora, il riferimento alla figura dell’estetico ma postumo notaio); ed ecco, quindi, spiegata la premura del poeta/notaio di alzarsi in tutta fretta, all’alba, subito dopo l’imitazione dei versi dei gabbiani fatta nel sonno dalla sua compagna, appena in tempo per registrare sulla carta il miracolo di un evento che a lui è precluso e che, come poeta – interdetto oramai ad ogni possibilità di moderna mimesis della natura – normalmente potrebbe rappresentare solo in termini di un’occasione perduta e che invece, adesso, del tutto eccezionalmente, può provare a rendere sulla carta, sia pure attraverso il filtro dell’altrui imitazione; “versi felici, tersi di luce”, quindi, versi cioè miracolosamente vivi, che il poeta ascrive, prima ancora che agli uccelli ed alla comica imitazione fatta dalla sua compagna, finalmente – ed almeno per questa volta – alla sua poesia.

Insomma, ed in conclusione: l’autore, con questa poesia, sembra voler dire che in quello strano verso che traduce la voce della natura e l’evento misterioso del suo manifestarsi, in quell’ineffabile ““Uij, Uij, Uij, Klà, Klà, Klà, Klà” dei gabbiani, imitato nel sonno dalla sua compagna e poi ulteriormente ricopiato sulla carta, si trova l’unica occasione di verità (e, quindi, di felicità) per l’uomo su questa terra, mentre, al contrario, tutto ciò che viene prima o dopo è motivo di dolore, in poesia come nella vita.