CANTI MODERNI, PURCHE’ SIANO CANTI
(1^ appendice alla raccolta di poesie Il bicchiere mezzo pieno)
Varcata che ho la soglia del mio mezzo secolo, sento il dovere di spiegare (se non proprio di difendere) la scelta di impiegare un termine oggi così desueto, qual è il termine “canti”, per descrivere le mie poesie.
Già negli anni scorsi ho provavo a illustrare la differenza che, secondo me, sussiste tra il “momento estatico” (di pura ispirazione) e il “momento estetico” (di affinamento formale) dell’atto di produzione poetica e provavo a paragonare quest’attività allo scorrere di un corso d’acqua, dove il fiume in piena rappresenta la fase emotiva e il letto del fiume l’argine razionale che lo contenga in modo da permetterne il deflusso e lo sbocco nel mare della comunicazione; o, ancora, ho provato a paragonare l’atto di produzione poetica ad una scultura, dove la materia prima è costituita dall’ispirazione emotiva e lo scalpello dall’incessante lavorìo razionale, al fine di darle forma e renderla più incisiva e intellegibile a tutti.
Ciò che in questa sede, invece, vorrei aggiungere è che la poesia, protesa com’è all’inseguimento dei nuovi traguardi imposti dalla modernità ed alle sue necessità di adeguamento stilistico (che involge, all’evidenza, anche i suoi codici di comunicazione), non smarrisca le proprie radici fino al punto di abiurare un carattere che le è connaturato in quanto linguaggio che parla “al cuore” prima ancora che “alla mente” o, meglio, in quanto linguaggio che parla al lato più recondito della mente e non alla sua componente più logica e razionale: mi riferisco al carattere di liricità che ogni componimento deve necessariamente possedere per potere assurgere al rango di poesia!
Solo tramite questo carattere, infatti, la poesia riesce ad intercettare gli angoli più oscuri del nostro io e le verità più profonde della realtà che ci circonda aiutandoci a farli uscire allo scoperto, a farli venire prepotentemente alla luce dal caos magmatico in cui si trovano aggrovigliati e che la poesia, ripeto, contribuisce a decodificare, provocando quella tipica sensazione “medianica” che solo quando è grande riesce a provocare!
La poesia non dice: suggerisce l’indicibile – suole affermare un amico – sennonché, per far questo, la poesia ha bisogno di germinare dalla sfera emotiva del soggetto (per cui un’aberrazione deve reputarsi quella poesia che, al contrario, pretenda di originare esclusivamente dalla sfera razionale del pensiero) ed allora non si può non riconoscere che i tradizionali strumenti della lirica (con le sue figure retoriche, il gioco dei sinonimi, delle assonanze, la ritmica, la metrica ecc.) siano congeniali a tale scopo né possano essere sostituiti da altri strumenti congegnati in modo asettico e con freddezza razionale, in una logica che si potrebbe definire da laboratorio.
Il poeta è un artista e non già un architetto o un ingegnere, questo non dobbiamo dimenticarcelo!
La poesia si forma nell’emisfero destro e non già nell’emisfero sinistro del nostro cervello: anche questo ripetiamocelo più spesso!
Il “momento estetico” viene dopo il “momento estatico” e non già prima o addirittura in sua vece, come tanti detrattori della lirica e moderni tecnocrati del verso si ostinano ancora oggi a pontificare!
E’ da qualche tempo che mi pare di assistere ad una loro metamorfosi, ad una “mutazione” della loro pelle a mano a mano che certi dogmi della nuova poesia inizino a vacillare…
Mi riferisco in particolare ai fautori di tanta parte della poesia contemporanea che, ancora fino a ieri, con fare sprezzante, pretendevano di liquidare la lirica e di fondare un’estetica nuova attraverso la sostituzione di figure giudicate come vecchie ed obsolete con nuove figure ritenute più al passo coi tempi: si pensi, per fare un esempio, al “montaggio” che, nelle intenzioni di questi giacobini del verso, avrebbe dovuto definitivamente sostituire la “sintassi” oppure ai “cola” (gruppi semantici semplici o unità ritmico-semantiche) che avrebbero sostituito la funzione metrica che tradizionalmente era svolta dalla “sillaba”.
Orbene: nel corso di questi ultimi anni tali assiomi sono stati ridimensionati e l’impatto iconoclasta di tali affermazioni è andato via via scemando, dal momento che è apparso sempre più evidente come il portare alle estreme conseguenze la logica fredda dell’estetica nuova abbia comportato una riduzione della capacità comunicativa della poesia e, di conseguenza, il distacco del lettore medio da tale forma di arte.
Una ricaduta che è sotto gli occhi di tutti e che non si può far finta di non vedere, calando la testa sotto la sabbia: una responsabilità che tanta parte della poesia contemporanea dovrà, alla fine, avere il coraggio di assumersi!
Eppure, come dicevo, mi pare di assistere ancora oggi ad un revirement di tali concetti via via che si allarga il dibattito, estremamente attuale, sulla funzione della poesia nella moderna società digitale: giacché mi pare di scorgere più o meno i medesimi proclami, sia pure declinati all’occorrenza, nei fautori della “nuova estetica digitale”.
Giacché anche in tal caso si afferma l’inadeguatezza della lirica a far fronte alla velocità del presente, alle nuove logiche comunicative che si sono imposte su internet e sui social media, le quali postulano schemi plurilinguistici, montaggi, formule abbreviative ecc.
Io rimango perplesso: non mi pare che, sdoganando il “ke” in luogo del “che”, la poesia possa aumentare la propria capacità comunicativa e adeguarsi al moderno sentire!
Battute a parte: non si era detto che quella dell’arte sia anche una funzione di resistenza, che l’arte debba esercitare una “controspinta” e non essere destinata ad una subalternità rispetto agli sviluppi più deteriori della “mondializzazione”?
Del resto, gli stessi padri dell’estetica nuova, tutti protesi a demolire il verso e a deprivarlo delle figure metriche tradizionali, si ponevano l’esigenza che il verso, in tal modo rinnovato, non andasse esente tuttavia da un ritmo, da una musicalità!
Di qui il perdurare della lirica, sia pure all’interno di una poesia che si evolve e che muta i propri codici di comunicazione, come il perdurare di una necessità che, in qualsiasi modo si voglia intendere oggi la struttura del verso, rimane pur sempre connaturata al fare poesia, al punto che non deve apparire un’esagerazione affermare che non c’è poesia se non c’è lirica e che la lirica, in definitiva, rimane anche oggi lo strumento cardine del fare poesia.
Ed ecco, alla fine, la necessità che la poesia continui ad essere “canto”, oggi più che mai: non importa se canti di dentro o canti di fuori, se siano focalizzati sull’io interiore o sulla realtà esterna che ci circonda, se abbiano ad oggetto l’intimità dell’esistenza individuale ovvero si spingano ad avere uno sguardo più allargato, che assurga al “noi”, come tanta poesia civile è riuscita a rappresentare: ciò che più conta è che la poesia, sia pure facendo tesoro di modalità espressive e di uno stile del linguaggio che si ponga al passo coi tempi, sappia ancora oggi far commuovere.