RITORNO A ITHACA

 

Accostandomi alle poesie di Mario Gioia ho avuto, da subito, il sentore di “terre altre”, seppur in un contesto caldo e confortevole, dove anche il profumo di rassicurante deja vu, che aleggia qua e là, come fantasma della “tradizione”, suona leggermente straniante.

Non inganni in Mario Gioia il suo dichiararsi, tra le righe, figlio, anche se degenere, di una emozione spiegabile, di un naturalismo di superficie, di una emozione non nascosta e non pudica, un ritorno non ingenuo ad un certo naturalismo. Nella sua bellissima lirica “Poesia della fine del mondo”, manifesto della sua poetica, col garbo di un gentiluomo, nel contesto di un convegno di poesia, si dice smarrito e infastidito di udire troppa “dodecafonia di lacerti e lessemi… atonia di reconditi suoi schemi / siano logiche strutture o automatiche scritture / son prodotti d’intelletto / processi di puro raziocinio”. E poi, con gentilezza, fra parentesi e in corsivo, ci ammonisce “(a me fanno pensare / al fuoco di un plotone, ai lager / non so per quale oscura azione / vi associo i campi di sterminio!)”.

Mario Gioia, pur con pudore, si è dichiarato, ha preso posizione: “Basta scrivere poesia solo con l’emisfero sinistro”. Ma questo ritorno (solo apparente) all’emotività, alla leggibilità, non poggia su stereotipi, su improbabili ritorni ai bei tempi andati, alla semplicità linguistica. Non è ingenuità, non è spontaneità neo naif. Nel suo linguaggio morbido e flessuoso si nascondono doppi e tripli strati, molteplici livelli di lettura, giochi formali e retorici. Il flusso di comunicazione non si interrompe, la musica fluisce, ma nelle correnti sotterranee si agitano strutture complesse, distici e rime baciate, ma anche contenuti rimossi e  censure apparenti che osano giocare tra la dialettica  superfice/profondità. Penso alla poesia di Gioia e mi immagino un grande fiume, con la sua maestosità ed il suo procedere con apparente naturalezza, ma sotto, quante correnti sotterranee, quante “onde contrarie”, e quanti tipi di pesci e piante abitano i flutti…

Il XX secolo non è trascorso invano, le avanguardie hanno fatto il loro mestiere, i vari “ritorni all’ordine” sono seguiti, come è naturale. C’è in Mario Gioia qualcosa di diverso: la ricerca di una ritrovata INNOCENZA, ma non quella stuporosa e inesperta del bambino, quanto quella dell’uomo maturo che guarda indietro alla sua vita e al contempo stabilisce un suo punto di vista sul mondo e vuole comunicare con potenza estatica. Scriveva Roberto Blazen: “La semplicità è la conquista dei complicati e la complicazione quella dei semplici”. Gioia si situa nel baricentro di questo movimento e lo fa con arguzia e intelligenza poetica e ci invita ad una lingua sensuale e vitale. Ci dice, ci insinua il dubbio e in fondo ha il coraggio di esclamare: “Andiamo, basta lamentarsi, il mondo non si è inaridito, è sempre fresco, è sempre nuovo, forse sono i nostri sensi e la nostra anima che hanno bisogno di manutenzione”.

Massimo Recalcati, riflettendo sull’evaporazione del Padre e della Legge nel Moderno, si chiede se nel nostro tempo qualcuno possa tornare dal mare per riportare senso nell’isola devastata dal godimento mortale ed estenuato dei Proci. Mario Gioia il suo vascello per tornare ad Itaca lo ha già messo in acqua ed ha issato le vele…

“L’uomo della Paura, l’uomo dell’Apparato, l’uomo dello Sfruttamento, l’uomo delle Bombe, l’uomo della Cura, l’uomo della Provvidenza o l’uomo della Pianificazione: che ne sanno della vita? Se elenchiamo ciò di cui constano le nostre vite, a capo di tutto troveremo  “tanta fatica e poca soddisfazione” , tanti cupi sogni e poco hic et nunc. Ed allora vivere sembra ridursi a un non essere ancora defunti. Imparare nuovamente a vivere, richiede in realtà, un grande lavoro di memoria. Ma, attenzione, non quel genere di passato che sa solo rimescolare vecchie storie. Il ricordo interno, il più intimo, conduce non ad una storia, ma ad una forza. E toccarla significa conoscere una onda estatica. Questo ricordo non sfocia nel passato, ma in un traboccante, istantaneo presente” (Critica della ragion cinica: Peter Sloterdijk).

“Uij, Uij, Uij, Uij, Klà, Klà, Klà, Klà” ( da “I gabbiani di Tossa”).

Ecco in questi fonemi disarticolati, un gesto di vita, ecco un esempio di laico ritorno alla Casa del Padre, nel segno di una Legge compassionevole, dove uomini, bestie e cose abbiano il loro posto, la loro ritrovata dignità, un dire e una Parola che possano ancora abitare il Linguaggio ed il Mondo, con i suoi detriti e residui, con le perse e forse recuperate “aure”, in un smarrito/ritrovato del “sacro quotidiano”.

Voglio credere che il linguaggio ed il vero non si siano persi e smarriti definitivamente, nascosti in formule cruciverbiche, astrusi tecnicismi, reverie di pseudo avanguardie, marketing para-letterario, dove poter sfoggiare l’originalità irrinunciabile del proprio isolato senso dell’Io.

Se Primo Levi, dal cuore più cupo del XX secolo, ha osato e potuto scrivere il non scrivibile, se Celan ha osato dire il non dicibile, allora, come è possibile che il poeta e l’artista non possano più “fabbricare” arte per tutti, in un mondo, sì cinico, sì dotato di un frainteso senso del principio di realtà di freudiana memoria, in questo “comfort dell’insopportabilità” (quando va bene!) e ritrovare così una smagata innocenza, una nuova Itacha, non dimentica di passati e futuri anteriori?

C’è bisogno di una lingua e una poesia libera dalle gabbie del narcisismo imperante che possa ritornare a parlare ai colti e ai non colti, che non stazioni più in angoli bui e nascosti delle librerie risparmiate dalla Grande Normalizzazione, ma che possa srotolarsi nelle piazze, nei teatri, nei verbosi consigli comunali, nell’abbandono dei capannoni industriali e delle campagne, che possa parlare dall’etere o su twitter, in performance d’avanguardia o in stendardi stesi al vento come  preghiere sugli stupa tibetani.

C’è bisogno di una lingua “generativa”, non sterile, un linguaggio che ritorni ad aver  voglia di figliare e non di nascondersi in un non generico barteblyano “Preferirei di no”. Forse è ora di dire basta alla nostra legittima voglia di arrotolarsi in cervellotici calembour per sfuggire alla Volgarità  dominante. Non ci si può rassegnare ad andare a capo ogni tanto, in versi densi ed evocativi e  dirsi… ho fatto poesia…

Intanto leggo Mario Gioia. Con gusto.

Mauro Ungarelli

 

P.S.   ITHACA è una città degli Stati Uniti d’America, nella contea di Tompkins, nello stato di New York. È situata nella parte centrale dello stato, in una valle che si affaccia sul lago Cayuga, 400 km a nord-ovest di New York. Fondata nel 1790 (e incorporata nel 1888), ha una superficie di 15,7 km quadrati.

Secondo il censimento del 2000, la sua popolazione è di 28.775 abitanti (densità abitativa: 2.071 abitanti per chilometro quadrato), due terzi dei quali costituiti da popolazione studentesca del locale polo universitario.

Il nome della località – il cui clima è continentale con temperature che possono variare dai -30 °C in inverno a +30° nella bella stagione – si ispira a quello dell’omonima isola greca di Itaca.

E’ sede della Cornell University, dove Vladimir Nabokov, insegnò e dove scrisse, fra altre opere, Lolita.

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