FINE DELL’ESTATE
Maulli, estate 2016
Scende sera sul bel tempo della vita
sopra gli ultimi bagliori dell’estate
che placido mi godo
nella luce che declina al pomeriggio
riflettendo come tutto ci trascorra
tutto si trascini e porti via
come l’onda del mare sulla sabbia
ogni memoria
E così, mentre il sole mi fa l’occhiolino
dalle foglie di una palma
con mia moglie che apparecchia la cena
(nella bocca mi si forma l’acquolina);
con mia figlia che fa il giro della casa
sul suo triciclo rosa
regalo della nonna;
con il nonno che impavido si arrischia
nella quiete generale
ad alzare il volume del suo telegiornale
sapessi quanto godo a sbirciarne le notizie
a origliare nei fatti della vita
anche solo di sfuggita
e a scorrere le cronache del mondo
dai titoli di fondo
restando imperturbabile a fissare
immagini trasmesse da lontano
da un ponte che non debba attraversare
da un monte che non debba valicare
da un fronte che non possa più ferirmi…
Perché davanti a me il tramonto appare
e stasera
la sua luce non ha lampi più da offrirmi
CINQUE ANNI (LA RUOTA)
Gira la ruota
poi, a un tratto, s’inchioda:
di fronte a un improvviso doppio senso
un’auto che procede sulla destra
mi allerta del pericolo a sinistra
ed io che sbigottito mi figuro
l’impatto devastante che ho evitato
lo schianto decisivo
che oggi non era destinato
con cui ti avrei privato della luce
Se penso quanti a incroci attraversiamo per la via
se penso a quante svolte noi imbocchiamo…
Ora, per esempio, c’immettiamo in una gita
sull’asse attrezzato di un fine settimana
mentre tu, ignara, cincischi con l’iPad
legata alla carlona
sul tuo seggiolino
ma lascia che arriviamo bimba mia
lascia che ti stringa
per non lasciarti più
per stare sempre assieme
fino a un altro giro della ruota
figlia mia
fino ad un futuro crocevia…
SEI ANNI (RAGGIO DI SOLE)
È spuntato il sole qui a Bologna
dopo giorni di tetro cielo
tu che soffi via
dal mio cuore la malinconia
il grigiore della vita quotidiana
ora mi dai un bacio e scappi via
verso l’atrio della scuola
con quelle tue gambine
esili ma forti
tutta incappottata
ricurva come sei sotto il peso del tuo zaino
mentre grido “divertiti e impara”
corri fiduciosa verso i tuoi amichetti
incontro al tuo mattino
Ed ecco che suona la campana
intanto che sparisci dalla vista
il pensiero che ti avrò nella mia sera
è il sollievo che mi resta
SETTE ANNI (DISTACCO)
Figlia mia, chissà perché
quando sono sul punto di partire
mi assale uno sconforto
quasi fosse il mio ultimo addio…
Sarà questa foschia c’è nell’aria
bimba mia
sarà quest’allegria così precaria
davvero non so da dove venga
questo nodo che mi stringe la gola
questo cappio che mi occlude ogni parola
Sarà questo nostro cammino
che lento ci sospinge lontani
su sponde distanti
sarà questo nostro destino
che mentre ci restringe il domani
ci trascorre davanti
L’ULTIMO VOLO
Eccoti a Bologna, papà
tra un nugolo di acciacchi e mille stelle avverse
noto che ti appoggi alle mie braccia
nell’ora d’aria della tua fumatina
dopo un buon caffè
e un altro tiro della tua nicotina
chissà perché mi assale il ricordo
di quando, bambino
ero io che a te mi sostenevo
bastone della mia giovinezza
traendovi tutto il vigore
della roccia paterna
Ed ora, ricurvo alla finestra
mentre fissi pensieroso
il pallore dell’autunno
questo lento scolorare della vita
che languida s’invola
morente stagione che nutre il nostro umore
e lo consola
tra cicli e ricicli
corsi e ricorsi
andate e ritorni
quanto vorrei che tornassero quei giorni
tutta la mia forza ti darei
per tirarti un poco su
adesso che ti stendi sul mio letto
e dormi che somigli a un angioletto
ti accosto su il lenzuolo e prego Iddio
di liberarti in volo e nulla più
L’ISOLA
Ritorno dal pronto soccorso
dove ho lasciato papà
ed ecco che sono già in treno
verso quell’altra città
per scrivere un nuovo ricorso
da concludere entro la sera
E per vincere il senso di colpa
per trovare in me stesso la forza
mi dico e ridico, come un disco ormai rotto
che questa è la vita reale:
dovere gestire i problemi
dovere mediare gli estremi
saper navigare a vista
remando però sottocosta
con un’isola sepolta nel cuore
IN O.B.I.
Mi chiamano al telefono mentre sono in pizzeria…
Tra tende e separé mi faccio strada
in questo accampamento di fortuna
Un verde beccamorto mi rintrona
che sei un paziente perso
Quand’ecco che mi appari
fissato ad una maschera a boccaglio
proteso in uno spasimo animale
il collo ritorto nello sforzo di afferrare
un brandello di respiro
mentre io ciò che afferro è che tu non ci sei più
non sei qui tra noi
chissà se stai sognando
dentro questa maschera di morte
questa smorfia di plastica
questo ghigno trasparente
IN CAMERA DA LETTO (VEGLIA NOTTURNA)
Tutto è pronto per la veglia notturna
La tua urna campeggia su una sedia
posta al centro della stanza
mentre noi discorriamo di calcio
e di dove andare a cena…
Approfitto di un momento che i fratelli sono usciti
per prendere la scatola
e girarla fra le mani
per sentire la tua cenere frusciare
le tue ossa crepitare
per un ultimo saluto
che m’infliggo nella mente
E prima che i fratelli rientrino
la torno a rovesciare
E ti agito come un demente
io che non credo più a niente
so solo che questo sei tu:
lo scroscio di un padre che fu
ALL’ALTRO CAPO DELLA VITA
Arrivano sul mio telefonino
le immagini degli Himba
un’autoctona tribù
che un amico da laggiù mi sta postando
all’altro capo della vita
E scorrendo le foto mi feriscono
i turgidi capezzoli
di una sedicenne
gran denti e gran sorrisi
sul collo un decorato ciambellone
e le mosche appiccicate ad un bambino
nel naso e sulle ciglia
che ha in faccia un’espressione divertita
che mi dice
che anche tra i tafàni
potrei essere felice
E pensare che all’Africa io ci gioco con mia figlia
per le stanze e i corridoi di casa mia
mi domando se vorrei andare via
mentre imbocco una fosca tangenziale
con il cuore scuro
com’è scuro questo cielo autunnale
ALLEGRIA DI ESTETICI PRESAGI
A Mauro
Anche tu sei un animaletto selvatico
che quando precipita
dal suo volo pindarico
mesto si ritira a leccarsi le ferite
e sceglie come cura
l’amica solitudine
Poi risorgi come un’araba fenice
ed è un bel conversare con te
al caffè Margherita
mentre, come un arabo felice
ti attorcigli sulla sedia
in attesa del tuo pasto conviviale
caffè, ammazzacaffè e melograno
per scacciare un pomeriggio menagramo
con me che mi appresto in tutta fretta ad annotare
le perle che ti escono mangiando:
“la parola nella sua luccicanza”
“la poesia come sparo nel buio”
“tutto il vero che trapela dietro il lampo”
“è l’inciampo a fare luce sul mistero”
e tante altre ancora:
spruzzi di pasta e sprazzi d’intelletto
per noi non credenti
per noi illusionisti
per noi veggenti passatisti
non rimane che l’effimera allegria
di questi nostri estetici presagi
non rimane che affidarci all’utopia
con questi nostri giochi di prestigi
LA PRIMA VOLTA IN CASSAZIONE
Entro nel bar della Corte Suprema
e subito mi ronza nelle orecchie
il brusio delle persone
il cozzare di stoviglie
il via vai degli avvocati incravattati o nella toga
nella pausa o nella foga
di discutere in udienza
quell’aroma di caffè
che mi porta alle soglie di un altro tribunale
agli inizi della mia professione
dentro un altro bar
dentro un’altra dimensione
che trascorsi felice
come sempre ci ammiccano i ricordi
c’era la freschezza dei trent’anni
c’era la corsa sulle scale, i primi affanni
c’erano colleghi che oggi sono in gloria
fugaci apparizioni
dalle aule della memoria…
E adesso mi domando che sarà della mia storia
ora che passeggio sulla soglia dei cinquanta
che cosa ne sia stato
di ciò che per la via ho sorpassato:
se questo mio presente
questa incerta condizione
debba ascriversi a somma
oppure a sottrazione
Sospetto che man mano che si avanzi
sull’orlo dell’ignoto
si arrivi così stanchi
si giunga così rotti
che il tonfo non darà mai voce a schianti
non darà mai eco a botti:
in fondo al nostro moto
noi ci sbricioleremo
come un guscio vuoto
IL BICCHIERE MEZZO PIENO
Salgo nella casa sradicata
per scendere le ultime cose
(da poco è terminato il trasloco)
mi assalgono folate di ricordi
rimbalzano sui muri
papà
ti sto per salutare
Mi accosto alla parete del tuo letto
macchiata del tuo sangue
che gratto con un dito:
perché vivere è un veleno da cacciarsi dentro al petto
Ma da oggi, padre mio, stai sereno
che tuo figlio questo calice alzerà
questo fiele d’ora in poi sorseggerà
e il bicchiere gli parrà mezzo pieno
IL SACRARIO
Ho eretto dentro casa il mio sacrario
per il quale ho dissipato
tutto l’onorario
lo guardo di sottecchi ogni mattina
quando esco in tutta fretta, borsa in mano
oppure rincasando verso sera
quando sfatto mi dilungo sul divano
i titoli li ho posti in verticale
li leggo di traverso, come abbacinato
li sfoglio con i guanti più aderenti
li sfilo dalle buste trasparenti
finché ne scelgo uno
che infilo sopra il piatto
ed eccolo che gira
nella pancia come nella stanza
sferra un pugno o rotea una danza
corre un fremito che mi sale fino in gola
una sferza di energia in ogni nota e ogni parola
Ho eretto dentro casa il mio sacrario
per il quale ho dirupato
l’asse ereditario
irrompe alla mia vista quasi fosse un simulacro
per quando calerà il mio sipario
perché dell’aldilà è un surrogato:
è un antidoto al decadimento
è un anticipo di risarcimento
o forse è solamente una mania
una smania di eterno dietro cui si consuma
la mia lenta agonia
LE COSE CHE RESTANO
Stamane, ai primi albori del mattino
mi spunta un’idea un po’ curiosa:
riparare l’abito da sposa
di mia nonna, da poco ereditato
Ed ecco quel che resta del passato:
il lurido sudario
di un vecchio manichino smandrappato
un sudicio e lercio reliquiario
Ma io con amore l’ho lavato
ed ora, nella quiete del mattino
mi appresto a discioglierne i grovigli
con pazienza ne districo gli intrichi
dai quali si sprigiona una polvere sottile
che s’invola nell’aria
e si posa sopra il mio pantalone, sulle braccia scoperte
su tutto il lastricato del balcone
E sapessi questa nebbia a quale età mi ha riportato…
Come dentro ad una vecchia galleria
innanzi mi si parano carrozze, cappelli con la piuma
brillanti e sciccheria
la distinta compostezza dei miei avi
ritratti in bianco e nero
e così mi trascorrono due ore
e il fresco del mattino vola via
E adesso mi sorprendo a domandarmi chi io sia
dove mai si celi, la vera anima mia
cos’abbia io in comune col borghese avvocatino
con l’anonimo e modesto scribacchino
frattanto che mi fingo di essere un becchino
di oggetti ormai spirati
colui che allestisca
una degna sepoltura
alle cose che furono vissute
e che pertanto vissero
come le persone
forse più delle persone
di cui raccolsero un bel giorno il testimone:
cose che restano di persone che passano
proprio come l’abito da sposa
logoro e smangiato
che depongo in questo scrigno infiocchettato
***
Quanto a me: che cosa di me vi resterà?
Che cosa mi sopravviverà?
Vi lascio questa mia didascalia:
Delle cose si disse poeta
in memoria di chi prima c’era
dalle rime sbocciate al crepuscolo
come rose fiorite di sera
VECCHIE SCARPE
Spalanco dei ricordi lo stipetto
e ci trovo le mie scarpe
di quand’ero ragazzetto
che ora sono gonfie ed ammuffite
le suole consumate
le stoffe imputridite
coperte dalla polvere degli anni
eppure quante storie potrebbero evocarmi
forse finanche il primo bacio
quanta vita fu percorsa su di loro
quante corse, quanti affanni
quante volte nell’impresa e nella foia
nell’attesa o nella noia
finché non ne smarrissi ogni memoria
conducendomi fin qui
nell’inganno del presente
Pure, un giorno, finiranno nel pattume
nel lercio cassonetto sotto casa
che un camion nell’acciaio triturerà
e poi una ciminiera soffierà
nel firmamento dei rifiuti
nel paradiso degli scarti
nel gran macero blu
come polline del tempo
che non ritorna più